giovedì 14 luglio 2011

Cambiamento? Vorrei ma non posso…

1.      Media e questioni di genere/generazione

Su media e stereotipi di genere si è detto molto e si continua a dire molto. Questa evidenza comporta alcune osservazioni. La prima è relativa al fatto che la questione “comunicazione” è diventata sempre più rilevante e dunque lo studio dei “media” (vecchi e nuovi) è essenziale per osservare in che modo “si comunica” e soprattutto, “che cosa” si comunica. In secondo luogo, se la sociologia (ma non solo) si occupa da oltre trent’anni di questioni di genere, oltretutto declinandone lo studio anche nell’ambito della comunicazione mediale, allora significa che esiste un problema che voglio definire “sistemico” – non solo in Italia – relativo al modo in cui viene considerata la diversità (in senso più ampio, includendo non solo la questione della donna, ma anche dell’idea di femminilità/maschilità e di tutte le varianti relative all’orientamento sessuale e alla concezione del sé, ma anche tutte quelle questioni che riguardano le differenze tra generazioni) nella nostra società.   
Rintracciare “Il” problema non è semplice, anzi forse impossibile, perché le questioni di genere (così come quelle di generazione) implicano questioni di potere, e le questioni di potere esistono da sempre, all’interno della storia degli esseri umani: dalla preistoria all’epoca dei romani, dal medioevo all’era moderna, dall’era moderna ad oggi, da oggi a domani (probabilmente, anche se c’è da augurarsi di no).
Attorno all’idea del genere, infatti, si sono costituiti nella storia gli usi e i costumi delle società: dalla dimensione fisica e biologica si è passati alla costruzione di identità sociali conformi (convenzionalmente ritenute tali) al proprio sesso d’appartenenza. Così una donna (XX) deve comportarsi da donna e un uomo (XY) deve comportarsi da uomo. La dicotomia uomo/donna si evoluta in una dicotomia maschilità/femminilità, la prima ha una natura oggettiva riconducibile a fattori biologici di riproduzione cellulare, la seconda è un costrutto sociale, sul quale si sono costruiti i rapporti di potere prima tra uomo e donna, poi tra uomini e tutto il resto.
Il “sex-gender system” ipotizzato da Gayle Rubin (1975) esprime bene questa relazione tra categoria biologica (sesso) e categoria sociale (genere), all’interno di un sistema consolidato di potere (e aggiungo, eterosessuale). All’interno di questo sistema di potere basato su sesso/genere, si sono plasmate le identità di milioni e milioni di persone, di intere generazioni. Inoltre, si sono costituiti gli immaginari collettivi relativi a ciò che è maschio e ciò che è femmina, in una iper-semplificazione del reale, così che tutto ciò che non rientra in questa distinzione è ignorato (quando va bene) e dove il primo elemento (maschile) detiene il potere e tutte le virtù, mentre il secondo (femminile) è condannato all’inferiorità e ad essere associato all’idea di debolezza e remissività. Non meno rilevante inoltre, è il ruolo rivestito dal concetto di “generazione”. Ossia delle differenze relative alle coorti di età più giovani e quelle più anziane. Assieme alla questione del genere, la dimensione “anagrafica” riveste un ruolo importante nel definire le relazioni di potere. Per esempio, la cultura del rispetto dei “vecchi”, l’idea che il “vecchio” sia “saggio”, e dunque meritevole di “ossequio” da parte dei più giovani, è un meccanismo socialmente costruito per mantenere gli equilibri di potere nelle varie società. All’interno di questo sistema “anagrafico” di gestione e riproduzione del potere e degli stereotipi, il genere si presenta come un qualcosa che può peggiorare la situazione di alcuni e migliorare quella di altri: per esempio una donna giovane, ha sicuramente più problemi di un maschio giovane, mentre una donna anziana, ha una sorta di “potere” che può esercitare anche su un “maschio giovane”. La complessità dell’intreccio “genere-generazioni-potere” è reso oggi più chiaro dalle azioni comunicative dei mass-media (che per definizione vogliono coinvolgere la massa e dunque utilizzano un vocabolario e un set di immagini/idee di senso comune, capaci di trasmettere efficacemente e spesso in modo tacito, valori, idee, usi e costumi, norme).  
In che modo i media rivestono allora un ruolo importante nelle questioni di genere? Ebbene, se si considera il concetto di “immaginario” questo ruolo diventa evidente. Il rapporto media-questioni di genere, si esplica in un circolo vizioso: dietro i media ci sono esseri umani, questi esseri umani utilizzano la propria conoscenza e la propria visione del mondo, per interpretare ciò che osservano attorno a sé; nel fare ciò sfruttano categorie pre-esistenti nella loro mente per catalogare ciò che osservano (il ricorso a stereotipi e pregiudizi, positivi e/o negativi). I media hanno lo scopo di veicolare informazioni e di coinvolgere quante più persone possibile: ciò che i media trasmettono è tuttavia una rappresentazione della realtà, ossia un insieme più o meno articolato di immaginari. Questi immaginari sono nelle menti delle persone che guardano, già esistenti, e media possono rafforzare o indebolire tali immaginari, ma possono (almeno potenzialmente) anche costruirne di nuovi. Dal mio personale punto di vista, ciò che i media non fanno, malgrado potenzialmente ne siano in grado, è costruire immaginari nuovi, o visioni del mondo nuove: ciò che mi sembra di capire è che ciò che viene proposto dai media non è innovazione (novità e/o alternativa), bensì continua opera di restauro di vecchi stereotipi (positivi o negativi) e visioni del mondo che provengono da un passato molto lontano. La distanza tra realtà e rappresentazione della realtà sembra essere molto ampia, specialmente perché alla base di queste questioni si trovano, appunto, questioni di potere. La resistenza al cambiamento è, nella mia idea, il tentativo forsennato di mantenere gli equilibri di potere che esistono tra gli uomini e tutto il resto: uomini vs donne o meglio maschi vs non maschi, vecchi vs giovani, e così via. Va da se, che anche questa è una semplificazione della realtà. La questione è da applicare in modo più ampio alla “diversità” in tutte le sue sfaccettature, ma la complessità e la vastità del tema sono un motivo non irrilevante, del fatto che in pochi se ne occupano: bianchi vs non bianchi, ricchi vs non ricchi, uomini bianchi vs uomini non bianchi, uomini vecchi vs uomini giovani, uomini giovani vs donne giovani, donne anziane vs donne giovani, uomini bianchi vecchi vs uomini neri giovani, e si potrebbe continuare per ore, credo, ad elencare in che modo le relazioni di potere si configurano in opposizioni, e dunque discriminazioni e poi ingiustizie.
In questo articolo però, mi voglio concentrare solo sul ruolo dei media nella ri-proposizione di stereotipi di genere e di generazione; e sull’effetto (almeno secondo me) che ciò ha nella costruzione e/o restaurazione degli immaginari collettivi di genere e generazione. Ho voluto scrivere queste poche pagine dopo aver guardato per qualche giorno la televisione generalista italiana: erano mesi che non accendevo la tv e nel guardare i vari programmi televisivi ho avuto modo di capire 1) il perché non avessi voluto più vedere la tv (ma questa è solo una questione di gusto personale) e 2) che aver studiato sociologia mi costringe a non vedere, bensì ad osservare qualunque cosa con l’obiettivo di problematizzare l’ovvio, dato che di ovvio c’è solo il fatto che niente è ovvio (e anche questo potrebbe essere un bel paradosso).
Ogni fiction, ogni programma, ogni pubblicità mi appare come un concentrato di stereotipi e di messaggi subliminali (a me abbastanza evidenti) che hanno lo scopo di plasmare le identità di chi le guarda. Vi descriverò di seguito alcuni degli elementi (due) che hanno fatto scattare in me questa consapevolezza (o presunta tale):
  
1)      Don Matteo (Rai Uno)
2)      La pubblicità di Cif-sgrassatore (Mediaset)

2.      Don Matteo: Stato e Chiesa, Laicità e Fede – la rivincita della tradizione


Al di là della piacevolezza o meno del programma, del suo essere in grado di suscitare o meno emozioni (positive o negative) ciò che non riesco a fare a meno di fare, è osservare e sezionare ogni scena attraverso uno sguardo sociologico, dunque critico dei contenuti, del linguaggio e delle immagini. Guardare un’intera stagione di “Don Matteo” (per l’esattezza la sesta stagione) prima e durante il pranzo, dovrebbe solo essere un momento di relax e di assenza di pensiero, dove la tv è sottofondo di un momento sociale di comunicazione e scambio di idee, ossia il pranzo (appunto). Eppure, malgrado una apparente distanza rispetto al telefilm mi è parso di cogliere nelle puntate che ho “visto”, ricorrere sistematicamente stereotipi sia di genere che di generazione. Tagliati trasversalmente dalla questione “cattolica”. Ora, va da se che un programma dal titolo “don matteo” abbia a che vedere con la “chiesa cattolica”, tuttavia declinato in un set “laico” (la vita di una cittadina umbra, le relazioni con l’arma dei carabinieri, la vita quotidiana delle persone) questa dimensione rappresenta (appunto, rappresenta e non propone un’alternativa) la vita di tutti i giorni, di una piccola realtà italiana: stato e chiesa, l’arma dei carabinieri e la parrocchia. La forza della legge (che arriva sempre dopo) e quella della fede (che sa sempre prima cosa accade e sa sempre come risolvere i problemi). Sia chiaro che non intendo criticare i valori/principi che vengono promossi e sostenuti, benché parziali. Tuttavia, la rappresentazione che viene data ai telespettatori (che per dispiacere di alcuni io continuo a reputare passivi e non attivi) è quella tradizionale (anti-innovativa) di una società à la “Peppone e Don Camillo” (anni Cinquanta).  
Esattamente questo, anni Cinquanta e non 2011. Facendo un parallelo tra i due programmi le differenze sono evidenti: bianco e nero l’uno, a colori l’altro; scontro aperto tra politica e chiesa nel primo, convivenza seppur complessa nel secondo tra Stato e Chiesa. Ma altrettanto evidenti sono i contenuti simili: stessa logica di azione (il prete conosce il suo gregge è lui che dà la fiducia e che capisce) all’interno del set della vita quotidiana di piccole realtà paesane, dove l’orologio del campanile scandisce i ritmi di vita e di pensiero, della popolazione. Senza specificare scena per scena e puntata per puntata voglio solo riportare i seguenti elementi che hanno accesso nella mia testa una lampadina circa questa relazione-riproduzione di stereotipi e visioni del mondo “arcaiche”:

a)      Rapporto Stato/Chiesa
b)      Rapporto Uomo/Donna
c)      Rapporto Padri/Figli
d)      Rapporto Vecchi/Giovani
e)      Rapporto tra dimensione descrittiva e dimensione normativa

Nella relazione tra Stato e Chiesa, si ha un “triangolo” simpatico: Don Matteo-Maresciallo Cecchini e Capitano Giulio. La relazione che intercorre tra queste tre figure ripropone in modo molto efficace la realtà italiana, dove il prete è “pastore delle anime” e dunque empatico e lungimirante, capace di comprendere in anticipo, perché illuminato da una qualche luce soprannaturale, il maresciallo, una persona con un titolo di studio basso che vive una doppia vita tra divisa dell’arma dei carabinieri e fedele amico del parroco, a cui va a confessare tutto e da cui aspetta consigli aiuti per “trovare la strada giusta”. E infine il capitano, la persona che rappresenta l’istituzione laica, l’arma dei carabinieri, titolo di studio alto, che apparentemente è ostile a questa commistione tra parrocchia e carabinieri, ma che sotto sotto ingoia il rospo amaro, perché sa “in cuor suo” che il prete per quanto noioso e ficcanaso, ha una marcia in più che può aiutare e sopperire le incompetenze di quelli che lo circondano (un manipolo di carabinieri goffi, stereotipati ancorché simpatici e poco affascinanti).
La dimensione pubblica (crimine-investigazione) si intreccia con dimensioni più intime, quelle degli altri personaggi (la vita quotidiana): la perpetua che fa la perpetua in tutti i sensi (curiosa, buffa, dedita alla cura della casa e del prete, depressa per la sua zitellaggine, insoddisfatta per la vita che fa, ma consapevole che il suo sacrificio è per una causa più alta e per aiutare/servire una persona come Don Matteo); la famiglia del maresciallo, una famiglia del sud insediata a Gubbio (Umbria) dove viene riproposto lo stereotipo del pater familia buono e comprensivo, ma allo stesso tempo duro, severo intransigente e cocciuto. Le storie personali delle vittime, dei criminali e delle persone che orbitano attorno a loro.
L’uomo e la donna sono anche in questo programma dipinti nel rispetto completo della tradizione cattolica: donna casalinga e madre vs donna in carriera e arrampicatrice sociale: il massimo è dato dall’attrito tra la fidanzata del capitano, donna in carriera, bella e acida, oltre che egoista e “inadatta” al ruolo di fidanzata/moglie per la sua latitanza e la madre del capitano, la mamma-chioccia che odia la fidanzata egoista del figlio. Un gioco in cui l’uomo che sta con una donna casalinga e dedita alla famiglia è un uomo “felice” e “soddisfatto”, oltre che “realizzato”, mentre un uomo che si ostina a correre dietro ad una donna in carriera (benché istruito e benestante) è un uomo “triste” e “sfigato”, appunto “poco uomo”. Gli aspetti comici che ritagliano i momenti intimi del capitano (uomo vero in divisa) e la fidanzata hostess di volo, dipingono la fidanzata come la “tigre” e il capitano come “il cagnolino bastonato”, tanto che ulula per farle piacere. Deriso dagli altri uomini, il maresciallo in primis benché molto meno affascinante e piacente del capitano.
E poi Don Matteo, il pastore angelicus, colui che capisce e risolve i problemi. Uomo energico, affascinante e sportivo. Un prete inusuale con la sua bicicletta sfreccia per Gubbio, indaga al posto dei carabinieri, interroga e ispeziona di nascosto, scopre l’invisibile, perché guidato dalla “fede”. Recupera tutte le pecorelle smarrite, nessuna esclusa. Riesce a far abbracciare il padre che ha perso il figlio per mano di un rapinatore, con il rapinatore stesso, e farlo diventare un “nuovo figlio”. Riesce a far perdonare i tradimenti dei mariti, da parte delle mogli perché “malgrado quell’errore, l’amore per la moglie rimane e per i figli che ci sono”, mentre non c’è traccia di un uomo che perdona la moglie per i propri tradimenti, anzi, di solito quella finisce ammazzata e ovviamente a lei il perdono non arriva.
Per quanto riguarda poi la relazione tra generazioni, qua si dà il meglio che si può, nella riproposizione di stereotipi e pregiudizi negativi sui giovani: nelle puntate che ho visto, i giovani sono dipinti essenzialmente in questo modo: santi, perché ubbidienti e diligenti, diavoli perché ribelli, disubbidienti, svogliati, dediti all’uso di alcool, droga e sesso senza sentimento. Poi all’interno di questa dimensione di spregiudicatezza, Don Matteo trova sempre la luce di Dio, che redimi queste pecorelle smarrite, così le sue poche parole sono sufficienti a far intravedere la Verità di Dio a questi disgraziati che prima erano assassini e delinquenti, ma che per via dell’amore di Dio, vengono perdonati da tutti, e quindi possono cambiare vita e ricominciare da capo. Coloro che non sono stati illuminati, sono morti ammazzati, o hanno ammazzato e poi si sono tolti la vita dal rimorso.
Questo insieme di fattori ri-propone una società basata sulla supremazia della fede rispetto alla legge degli uomini, dove la Verità è di Dio e dove il prete può (la religione in senso più ampio) redimere le pecorelle smarrite, perdonando qualunque misfatto, perché Dio è misericordioso e chi vive nella sua luce, lo è altrettanto. Gli anziani sono coloro che hanno la saggezza dalla loro, l’esperienza e la capacità di comprendere cosa è bene e male, mentre i giovani sono sempre e comunque le pecorelle che si smarriscono, oppure, fin quando sono ligi alle regole della famiglia e della società in generale (Chiesa/Scuola/Stato), sono buoni cittadini. All’interno di questo dipinto della società italiana emergono i rapporti di potere tra generi e generazioni: dove il perdono da parte della donna è sempre dovuto, e infatti si realizza sempre, oppure del padre verso un figlio (anche figurato, come nel caso del padre che ha perso il figlio con il suo assassino giovane e redento) si realizza solo dopo l’illuminazione della fede.
La visione del mondo che viene proposta è perfettamente tradizionale, tanto che esiste una continuità tra Don Camillo e Don Matteo, tra gli anni Cinquanta e il nuovo Millennio. Sembra che niente sia cambiato, se non la cornice: non c’è più il carro, ma la macchina; le campane non hanno bisogno del campanaro, c’è il cronometro elettrico; la polizia ha i mezzi per indagare, ma è comunque il prete in bicicletta ad arrivare sempre prima e così via. Come già detto niente in contrario al fatto che vengano veicolati valori/principi quali la “solidarietà”; il “perdono”; la “comprensione”, “la redenzione” e il “rispetto”, se non fosse che, a mio parare, all’interno di questa cornice, decisamente anacronistica ed eccessivamente idilliaca, vengono ri-proposte relazioni di potere tradizionali e monolitiche, che generano ingiustizie e discriminazioni sempre più radicate, quanto meno visibili: ribadisco, idea di giovani sempre da redimere e correggere, irresponsabili e superficiali (sono tutti così?); vecchi saggi e sapienti (sono tutti così?); la fede prevale sempre sul resto (è valido per tutti?); ad un danno/ingiustizia, tutti porgono l’altra guancia (è sempre così? E quelli che non lo fanno, sono da condannare?). Come hanno osservato in molti, anche nel rappresentare la realtà a grandi linee, la tv (i media) tendono a minimizzare o a enfatizzare determinati aspetti (Capecchi, 2007) tuttavia, credo che in programmi particolari sarebbe necessario proporre, piuttosto visioni alternative, seppur ritenute minoritarie o fantasiose, perché un programma come Don Matteo, è visto da famiglie e da bambini, che vedono consolidare modelli di comportamento in senso normativo: questo si, questo no. Devi fare così per essere buono, diversamente sei cattivo. E via dicendo.

3.      La pubblicità del Cif: progresso vorrei ma non posso….

Guardando questa pubblicità ho avuto modo di percepire in modo nitido la condizione dei media italiani oggi: costretti tra tradizione e innovazione, schiacciati tra il tentativo di rompere e proporre “novità” e “alternative” e la comodità di sfruttare gli stereotipi.
La pubblicità è fatta sotto forma di cartoon. Una voce narrante (femminile) racconta della storia di un regno, che ha perso il suo re. Per diventare re, di questo regno senza nome, la sfida è pulire un pentolone magico in modo perfetto. Moltissimi cavalieri tentano di sgrassare questo pentolone, ma inesorabilmente falliscono tutti: questi maschi sono proprio pessimi con i prodotti domestici. Non riescono a sgrassare un pentolone. Ma alla fine arriva un cavaliere con un’armatura lucente che rivendica di tentare anche lui. Fino a qua emerge un timido tentativo di proporre un’idea di “uomo-casalingo”, che fino all’arrivo dell’ultimo cavaliere però, è goffo e incompetente (non sa cosa usare per sgrassare, usa prodotti sbagliati, fallisce). Utilizzando cif-sgrassatore il cavaliere mette a lucido il pentolone e tutta la cucina in poco tempo.
Sono rimasto piacevolmente colpito da una pubblicità di questo tipo, ma il coupé-de-theatre finale mi ha proprio allibito: la voce narrante (suppongo sia una mamma che racconta al proprio figlio/figlia) dice che il cavaliere era riuscito nel suo intento, sgrassando il pentolone come nessuno era riuscito prima, diventano “la nuova regina!”. Il cavaliere si smaschera ed è una donna, non un uomo (ricorda un po’ Fantaghirò). Ecco svelato l’enigma, solo una donna è veramente in grado di occuparsi della cucina nel modo giusto. Tanto che a fine pubblicità viene caldamente consigliato alle mamme e alle casalinghe di comprare il prodotto, perché così possono pulire prima e meglio (anche se rispetto ai maschi questo è già ovvio). Un progressista eccessivo avrebbe potuto vedere nel cavaliere-regina un’idea nuova di transgenderismo, ma ho il sospetto che non sia lontanamente ipotizzabile. Per togliere il dubbio, alla fine il cartoon diventa la realtà, la voce narrante è il cavaliere, il cavaliere è la mamma che ha pulito la cucina con il figlio che guarda.
Banale? Forse, ma questa pubblicità mira a interessare oltre che le donne i bambini (sia maschi che femmine) proponendo un’idea ben precisa del ruolo/compito della donna e delle capacità che essa ha in un certo ambito del vivere (la sfera domestica) rispetto ai maschi. Chi non osserva, ma si limita a vedere, ribatterà sostenendo che questo è un “cercare il pelo nell’uovo”, ma essendo la sociologia una disciplina critica che “problematizza l’ovvio”, dico esattamente si: il pelo nell’uovo è bello grosso, qua non è servito molto indagare. È veramente chiaro il messaggio.    

4.      Osservazioni conclusive

I media rappresentano degli strumenti importanti di diffusione di informazioni/notizie, ma hanno anche un ruolo importante nel veicolare idee, pensieri, modi di fare, usi e costumi. Il ruolo più importante è rappresentato dalla capacità di “riprodurre immaginari” (Capecchi, 2007) più o meno stereotipati e legati alla tradizione. Ciò che voglio evidenziare è il ruolo che i media hanno nella proposta di stereotipi sia di genere che di generazione e come i tentativi di progresso (ammesso che esistano) siano invece solo apparenti e spesso funzionali alla ri-proposizione di stereotipi e pregiudizi. 

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