domenica 24 luglio 2011

Una critica a: “La strage in Norvegia Il razzismo è l'altra faccia del multiculturalismo” di Magdi Cristiano Allam

Nell’articolo comparso in data 24 luglio 2011, sul Giornale, dal titolo “la strage in Norvegia, il razzismo è l’altra faccia del multiculturalismo” Magdi Cristiano Allam propone un’interpretazione tutta razzista del concetto di multiculturalismo.
Condivisibile è, senza alcun dubbio, l’affermazione che vuole il rifiuto assoluto di ogni genere di violenza, sia essa di matrice cristiana o di matrice musulmana. Per fortuna, vorrei dire. Tuttavia non manca la vena razzista e altrettanto fondamentalista che egli vuole condannare. La violenza esercitata da individui di fede musulmana sarebbe, secondo Magdi Cristiano Allam, legittimata dai testi sacri e dalla condotta di Maometto, mentre la violenza esercitata da un cristiano sarebbe senza legittimazione:
La verità è che sia il terrorismo islamico sia quello neonazista, si fondano sulla supremazia della razza o della religione, nel caso di Anders Behrin Breivik indicata co­me «cristiana»,si equivalgono nel­la loro divisione faziosa dell’uma­nità dove loro, detentori di una veri­tà assoluta che deve essere impo­sta con la forza, condividono sia il principio che chi non la pensa co­me loro non ha diritto di esistere sia la pratica della violenza per la re­alizzazione dei loro obiettivi. La dif­ferenza sostanziale è che mentre gli islamici che uccidono gli «infe­deli » sono legittimati da ciò che ha ordinato loro Allah nel Corano e da quanto ha fatto Maometto, i cristia­ni che uccidono per qualsivoglia ra­gione lo fanno in flagrante contra­sto con ciò che è scritto nei Vangeli.” (Magdi Cristiano Allam, 2011)

Primo punto fermo che vorrei evidenziare è che nessuna religione predica la violenza: le testimonianze di violenza che possono essere individuate nel Corano, piuttosto che nella Bibbia (ce ne sono parecchie) vanno ricondotte ad un contesto storico e sociale ben differente dal nostro. Le guerre erano questioni normali (anche se oggi non sembra essere cambiato molto). Tuttavia il messaggio che viene offerto dalle religioni è sempre quello del “no alla violenza” e “si al dialogo”.
Stupisce che Magdi Cristiano Allam voglia, malgrado questa terribile vicenda che ha sconvolto una nazione come la Norvegia, pacifica e rispettosa degli altri, fomentare odio e rabbia, inquadrando in una religione particolare, l’ISLAM un pericolo sempre e comunque insito nella dottrina, tralasciando questioni fondamentali: la responsabilità individuale prima di tutto. Colpisce e indigna che si voglia creare, tacitamente, odio dopo una manifestazione di odio come quella consumata ad Oslo, da un “norvegese, biondo, alto, di destra e fondamentalista cristiano”.
Sì, ogni fondamentalismo, sia esso ispirato a degenerazioni del pensiero islamico piuttosto che cristiano, è da condannare sempre e comunque. Ma trovo altrettanto deplorevole e condannabile, il volere sistematicamente identificare dei nemici in altre culture e religioni, approfittando di situazioni di panico e di sgomento.
Il secondo aspetto che trovo, aberrante, è l’associazione razzismo (violenza) e multiculturalismo. Magdi Cristiano Allam scrive:  Quanto alla causa di fondo di questi barbari attentati, essa risie­de nell’ideologia del razzismo che, nel caso specifico dell’Occidente che s’ispira alla fede cristiana,è l’al­t­ra faccia della medaglia del multi­culturalismo. Razzismo e multicul­turalismo commettono l’errore di sovrapporre la dimensione della religione o delle idee con la dimen­sione della persona. L’ideologia del razzismo si fonda sulla tesi che dalla condanna della religione o delle idee altrui si debba procede­re alla condanna di tutti coloro che a vario titolo fanno riferimento a quella religione o a quelle idee. Vi­ceversa l’ideologia del multicultu­ralismo è la trasposizi­one in ambi­to sociale del relativismo che si fon­da sulla tesi che per amare il prossi­mo si debba sposare la sua religio­ne o le sue idee, mettendo sullo stesso piano tutte le religioni, cultu­re, valori, immaginando che la civi­le­convivenza possa realizzarsi sen­za un comune collante valoriale e identitario” e prosegue “La Norvegia, al pari della Svezia, Gran Bretagna, Olanda e Germa­nia, predica e pratica l’ideologia del multiculturalismo, concepen­do che l’accoglienza degli immi­grati e più in generale il rapporto con il mondo della globalizzazio­ne debbano portare a un cambia­mento radicale della nostra civiltà, fino a vergognarci delle nostre radi­ci giudaico- cristiane, a negare i va­lori non negoziabili, a tradire la no­stra identità cristiana, ad antepor­r­e l’amore per il prossimo alla salva­guardia dei legittimi interessi na­zionali della popolazione autocto­na, al punto da elargire a piene ma­ni agli stranieri diritti e libertà sen­za chiedere loro l’ottemperanza dei doveri e il rispetto delle regole”. (Magdi Cristiano Allam)

Sembra quasi che le Nazioni che hanno fatto del dialogo, dell’accoglienza e del confronto un tratto distintivo della propria cultura e della propria politica si siano cercate quello che è successo. Orribile! Valori che sono profondamente cristiani come la tolleranza, l’accoglienza, il confronto, il perdono, il rispetto reciproco, vengono puntualmente calpestati dall’ignoranza e dalla cieca volontà di creare nemici e pericoli che non esistono. Quali sono le questioni realmente sociali che inducono a credere ciò? Nessuna, piuttosto le motivazioni personali di odio e di rabbia, che dovrebbero restare fuori dall’analisi della collettività. Trovo razzista anche questo modo di procedere: la tua personale esperienza non è metro di giudizio per l’esperienza del resto del mondo!
Siamo nella società della paura, con buona pace di Beck che parlava dell’insicurezza! Si fa leva sulla paura dell’altro in modo strisciante e tacito, il che è ancora più pericoloso della violenza diretta (Il sociologo Norvegese Galthung - non ha caso norvegese – costituì gli studi sulla pace, parlando di come violenza diretta e indiretta fossero correlate e come la seconda fosse realmente più pericolosa della prima). Invece di progredire verso una realtà sociale consapevole della propria multiculturalità si lotta affinché tale consapevolezza resti celata agli occhi delle persone, palesando pericoli inesistenti di cancellazione delle identità culturali specifiche e dei propri valori secolari (millenari). Chi manifesta un simile pensiero è fuori dalla storia, fuori dalla realtà sociale e sordo alle richieste di cambiamento che la società urla da tempo. Credere che il cristianesimo sia solo pace e che tutto dovrebbe essere ricondotto a questo è fallimentare, tanto come lo era per Comte credere che in una società industrializzata la guerra non avesse più motivo di esistere (probabilmente si, ma le due guerre mondiali hanno smentito il suo essere profeta di pace).   
La società muta: che Magdi Cristiano Allam se ne renda conto, finalmente. Sono cambiate molte cose in due mila anni di storia, per fortuna. Multiculturalismo non è relativismo spregiudicato, dialogo e accoglienza non significano annullamento della propria identità. Le identità sono fluide, per usare un concetto caro al nostro Bauman, non sono date una volta per tutte, possono modificarsi nel tempo e dall’incontro di culture diverse e di pensieri diversi nasce il dibattito, che è l’ingrediente fondamentale per migliorarsi: siamo esseri intelligenti affermava Montesquieu, siamo capaci di modificare le leggi che ci auto-imponiamo, anche trasgredendole se ritenuto ingiuste. Nei paesi nordici esiste una cultura completamente differente dalla nostra: la responsabilità individuale è vista come capacità del singolo di saper scegliere cosa è giusto e cosa non lo è, di pensare razionalmente al bene e mette in evidenza la fiducia che si ha negli individui dotati di intelligenza. Da noi la responsabilità è imposta: esiste un’elité che si arroga il diritto di conoscere il bene e il male e pretende costantemente che tutti si adeguino a questa visione. Ebbene: no grazie.
L’esperienza terribile che ha coinvolto il popolo norvegese, offeso da un suo stesso componente, su moventi puramente ideologici e di odio, deve rafforzare la loro cultura plurale, aperta alla diversità, capace di fidarsi dell’essere umano e di ipotizzare un mondo migliore. E dovremmo cambiare noi, non loro: noi dovremmo eliminare le contrapposizioni razziste e anacronistiche basate su inesistenti precetti religiosi (per me Gesù non si riconoscerebbe in questa cristianità!) che vogliono porre la nostra cultura e religione su un gradino di superiorità. Noi dovremmo smettere di cavalcare la paura dell’altro per interessi politici ed economici (Chiesa inclusa). Il sistema occidentale deve andare verso il multiculturalismo, ancora più responsabile e radicato, perché è l’unica strada percorribile per trovare l’incontro e non lo scontro.
Perdere i propri valori è impossibile a meno che questi siano o deboli o non ci appartengano. Un apprendimento reciproco offre di più dello scontro costante dove l’uno vuole imporre all’altro la propria convinzione, ma se qualcuno dal dibattito intende mutarla questa sua convinzione, allora tanto meglio, anche questa è libertà. Si può discutere senza annullarsi, se Magdi Cristiano Allam teme di perdersi forse non ha una fede così forte, o si reputa troppo condizionabile, non so, ma che il suo timore lo coltivi per se, senza esigere che il mondo lo segua.
Il cambiamento è inevitabile, si può fare molto per frenarlo e per corromperlo, ma questo cambiamento avverrà comunque, tanto meglio sarebbe smettere di opporvisi ciecamente e decidere finalmente di “accettare” l’altro e le “altre culture”. Per non essere eccessivamente deterministico e fatalista, vorrei suggerire che il cambiamento (che in una visione eccessivamente positivista, vorrei concepire come inarrestabile) può essere però pilotato, gli individui e le collettività possono guidare il cambiamento se lo vogliono, questo potrebbe essere (o dovrebbe) lo specifico della specie umana, per evitare di essere schiavi di un disegno divino precostituito: ad oggi, se vuole prevalere lo scontro, la chiusura e l’ignoranza allora le prospettive sono di un cambiamento inesorabile e negativo che lascerà le cose ancora simili a 100 anni fa, dove sarà la violenza ancora ad essere l’ago della bilancia, fino a quando non ci distruggeremo allora. Se si vuole sotterrare l’ascia da guerra e provare ad essere meno arroganti e più aperti agli altri, pur fermi delle proprie convinzioni (con la possibilità di cambiarle, o che gli altri possano cambiarle) allora forse il cambiamento potrà essere reciprocamente vantaggioso a dispetto del mercato della guerra che rimane abbastanza redditizio per i paesi occidentali.
Vorrei allora dire “consapevolezza” e “comprensione” gli ingredienti del multiculturalismo, “ignoranza” e “miopia” gli ingredienti del razzismo.  



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* Il link dell'articolo di Magdi Cristiano Allam, 24-07-2011:

sabato 23 luglio 2011

OSLO

L'attentato ad Oslo è stato imputato ad un ragazzo "alto, biondo e norvegese". Questa descrizione è importante, perché mette in evidenza come certa stampa utilizzi stereotipi e pregiudizi (fa strano leggere una descrizione di quel tipo, piuttosto che "era uno scuro, musulmano e pure brutto) e come certe informazioni vengano date sulla base dell'ignoranza e del razzismo più radicale: un fondamentalista cristiano che con estrema lucidità, travestito da poliziotto, raduna un centinaio di ragazzi in festa per il proprio partito politico (centro-sinistra), con una scusa, fingendo di essere li per difenderli. 
Con grande freddezza e lucidità, con calma - dicono i testimoni sopravvissuti - sfodera il fucile e compie una strage senza il minimo rimorso. Un Hitler dei giorni nostri, non è pazzia, non è incapacità di intendere e di volere, è chiarissimo il suo scopo: distruggere chi non la pensa come lui. 
La stampa italiana ancora prima di appurare le notizie pubblica degli annunci completamente errati, falsi, xenofobi e intellettualmente offensivi. Anche questo modo di comunicare ed informare è deplorevole (oltre che sgradevole agli occhi di chi è un minimo consapevole di ciò che gli accade attorno). Siamo alla società dell'odio, dove pregiudizi e stereotipi negativi dominano in modo sconsiderato su tutti gli ambiti del vivere civile. Dalla politica all'economia, dall'informazione all'educazione: cornice di tutto le ideologie e le religioni che vengono usate come armi contro le persone. 
Accusati ingiustamente gli islamici e l'ISLAM in quanto fede, mentre il carnefice spregiudicato è un fondamentalista sì, ma cristiano: biondo, alto e norvegese. 




  

giovedì 21 luglio 2011

"L'abominevole diritto. Gay e Lesbiche, Giudici e Legislatori"

Questo post è dedicato al libro di Matteo Winkler e Gabriele Strazio dal titolo "L'abominevole diritto. Gay e Lesbiche, Giudici e Legislatori", con prefazione di Stefano Rodotà, edito da "Il Saggiatore".  

Questo libro è, come scrive Rodotà, importante perché non parla solo di omosessualità, quanto piuttosto, di "eguaglianza". La questione dell’omosessualità in una prospettiva che tratta di eguaglianza, comporta un incontro di punti di vista differenti: è una questione filosofica, ma anche giuridica. È una questione storica, ma anche politica. È anche una questione sociologica.
Il libro tratta della questione omosessuale (e più in generale delle questioni di genere e di orientamento sessuale) in modo originale, perché coniuga l’aspetto giuridico (con riferimenti normativi e giurisprudenziali) agli aspetti storico-culturali e socio-politici, attraverso esempi concreti e confronti internazionali.
Un testo piacevole da leggere, perché scritto bene. Non appesantito dai riferimenti legislativi né tantomeno da un linguaggio eccessivamente specialistico. Un libro che tratta di un argomento importante e attuale, con serietà, ma con un linguaggio accessibile anche ad un pubblico di “non addetti ai lavori”.  Una risorsa anche per i politici, che avrebbero bisogno di “farsi un’idea” più vicina alla realtà dell’argomento, visto che spesso parlano a sproposito e senza alcuna base scientifica (ma nemmeno con un minimo sindacale di buon senso). Ma veniamo alla sostanza del libro.

Nei capitoli dedicati agli aspetti più storico-culturali,  e sociali, gli autori citano uno dei pochi studi sociologici sull’omosessualità (cfr. Omosessuali moderni, Barbagli e Colombo, 2007) per descrivere uno scenario in trasformazione. Malgrado la mia personale opinione circa il lavoro dei due sociologi (Barbagli e Colombo), che reputo non esaustivo (non preciso) nel metodo* (ma anche in certe considerazioni) e troppo ardito (e semplicistico) in certe affermazioni, è importante osservare il ruolo del “cambiamento”. Quando si cerca di dare una definizione nitida della sessualità e dunque una definizione con pretesa di assolutezza, si cade nel rischio di essere o troppo rigidi o troppo elastici. Ciò che mi pare importante osservare è l’aspetto “mutevole” e quindi non “immutabile” della sessualità. Malgrado ciò è necessario in un certo senso definire se l’orientamento sessuale è o no un dato di fatto, per evitare che si facciano avanti quelle posizioni che gli autori definiscono “volontaristiche” ossia che vedono l’orientamento sessuale come il risultato di una scelta, dalla quale è possibile tornare indietro (con il rischio delle teorie riparazioniste à la Nicolosi). Dal punto di vista sociologico appare dunque interessante il modo in cui gli autori affrontano questo aspetto, non privo di ambiguità, lasciando una porta aperta al dibattito, anche perché una risposta attualmente non c’è, o per lo meno non ce ne è una che metta d’accordo tutti, anche se prevale la visione dell’OMS che definisce l’orientamento sessuale come una variante naturale della personalità, con cui io concordo. Sono semmai i condizionamenti esterni all’individuo che possono favorire o sfavorire la manifestazione di tale orientamento.
Gli autori evidenziano allora un altro aspetto che reputo molto importante: la questione della visibilità (coming out) che comporta non solo la comunicazione all’esterno della propria condizione, ma anche un processo di adattamento e di apprendimento rispetto alla propria situazione: un momento di presa di coscienza di sé, e dunque un processo che attiene alla costruzione della propria identità e personalità.
I riferimenti che gli autori propongono (per lo più interpretazioni di sentenze, articoli, leggi) mettono in luce come i giudici abbiano nel tempo mutato la loro idea, proponendo interpretazioni differenti in base al momento storico, ma evidenziando come, sia nei regimi più “tolleranti” tanto quanto in quelli più “repressivi” esistano forme striscianti, tacite, di discriminazione.
L’esempio più nitido è quello della regola del “don’t ask, don’t tell” (voluta da Bill Clinton) in vigore fino al 2010 negli USA. L’analisi che viene proposta dagli autori è efficace, precisa e convincente perché mette in evidenza l’intreccio che c’è tra riconoscimento da parte della società, tutela dello Stato e presa di coscienza della propria condizione. In poche parole, gli autori evidenziano come gli interventi legislativi non possano essere limitati alla tutela delle persone omosessuali dagli atti di violenza e di discriminazione diretta (per esempio, il fatto che siano riconosciute aggravanti per reati comuni che hanno come giustificazione primaria il fatto che la vittima sia omosessuale, piuttosto che transessuale e così via). Ma, come sia importante anche la tutela delle discriminazioni e della violenza indiretta e tacita: la norma sociale del puoi fare ciò che vuoi, basta che non lo manifesti in pubblico, è una palese violazione della libertà individuale, della libertà di esprimersi, della libertà di essere ciò che si è. È in sostanza una terribile violazione dei diritti umani. Una nazione democratica, come è (dovrebbe essere) l’Italia non può (come spiega anche Rodotà nella prefazione) ignorare questa classe di persone, questo insieme sì minoritario, ma comunque titolare di diritti. Non è sufficiente che lo Stato intervenga quando si manifesta un reato (cfr. caso Shepard), per esempio quando un individuo è soggetto a violenza fisica per il suo essere omosessuale, ma deve fare in modo che alle persone omosessuali venga permesso di vivere la propria vita esattamente come accade agli altri individui con orientamento sessuale “eterosessuale”.
Gli interventi ad hoc, come le azioni positive (utilizzate anche per le donne) non servono per creare “norme per gli omosessuali” e dunque una sorta di ombrello che li possa favorire sempre e comunque, ma delle iniziative capaci di mettere le persone omosessuali (ma anche transessuali, bisessuali, lesbiche) nella condizione di godere delle stesse opportunità degli altri. La metafora che mi viene in mente è quella dello sgabello: gli individui eterosessuali, hanno delle garanzie e delle opportunità, gli individui omosessuali hanno degli svantaggi oggettivi che possono impedire loro di godere delle stesse opportunità degli altri. Se l’obiettivo è toccare il soffitto, gli eterosessuali stanno con i piedi sopra uno sgabello (i diritti) e possono toccare il soffito agilmente; gli omosessuali sono a terra, sul pavimento (a volte anche sdraiati e ben schiacciati), quindi non riusciranno mai a toccare quel soffitto.  Le iniziative che servono a tutelare questa minoranza, sia nelle manifestazioni esplicite che in quelle implicite, hanno il ruolo di sostegno: sono uno sgabello, su cui gli omosessuali possono stare al fine di essere al pari degli altri individui eterosessuali, di concorrere in modo paritario al raggiungimento dei propri obiettivi, per esempio toccare quel soffitto. Se gli sgabelli ci sono per tutti, da quella condizione base eguale, poi saranno le capacità dei singoli a permettere o no, di raggiungere l’obiettivo, ma se ci sono impedimenti che non dipendono il soggetto, ma sono causati dall’esterno con l’esplicito (o implicito) obiettivo di penalizzare e ostacolare questi individui, allora lo Stato ha il dovere di intervenire. Inoltre come osservano gli autori, la nostra Costituzione indica dei principi generali importanti, che nei fatti vengono disattesi o aggirati.
Il libro affronta il rapporto tra giurisprudenza (nazionale e internazionale) e condizione omosessuale, attraverso esempi concreti e casi storici. Tratta inoltre di questioni molto attuali quali il matrimonio tra persone dello stesso sesso, adozione e omogenitorialità. Questioni importanti e su cui si ragiona poco, specialmente per la reticenza e l’omertà che contraddistingue anche il mondo accademico (gli stessi Barbagli e Colombo, lo mettono in evidenza).
Il libro è secondo me un’opportunità interessante per chiunque di avvicinarsi ad un tema delicato, ambiguo perché molti parlano senza conoscere e per un’ideologia, e poco trattato. Un linguaggio comprensibile ma non semplicistico, riferimenti importanti a norme nazionali e internazionali, analisi di casi concreti e di sentenze, una contestualizzazione storica e sociale precisa e un’analisi critica efficace. Un libro che consiglio di leggere anche a chi non è interessato direttamente ai queer-studies o ai gender studies, ma che vuole sapere di più su questo tema. Dal punto di vista della sociologia trovo invece che sia importante perché propone una visione nuova delle relazioni tra società, cultura e giurisprudenza.


Fig.1. La mia teoria dello sgabello! 


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 * per esempio, il campione è selezionato attraverso il ricorso ad associazioni LGBT ed è completamente tralasciato il mondo virtuale, eppure vengono fatte generalizzazioni troppo ardite; come l’affermazione che non esistono più distinzioni nette tra ruoli sessuali (attivo e passivo per esempio), su cui sento di non essere pienamente d’accordo. 

giovedì 14 luglio 2011

Cambiamento? Vorrei ma non posso…

1.      Media e questioni di genere/generazione

Su media e stereotipi di genere si è detto molto e si continua a dire molto. Questa evidenza comporta alcune osservazioni. La prima è relativa al fatto che la questione “comunicazione” è diventata sempre più rilevante e dunque lo studio dei “media” (vecchi e nuovi) è essenziale per osservare in che modo “si comunica” e soprattutto, “che cosa” si comunica. In secondo luogo, se la sociologia (ma non solo) si occupa da oltre trent’anni di questioni di genere, oltretutto declinandone lo studio anche nell’ambito della comunicazione mediale, allora significa che esiste un problema che voglio definire “sistemico” – non solo in Italia – relativo al modo in cui viene considerata la diversità (in senso più ampio, includendo non solo la questione della donna, ma anche dell’idea di femminilità/maschilità e di tutte le varianti relative all’orientamento sessuale e alla concezione del sé, ma anche tutte quelle questioni che riguardano le differenze tra generazioni) nella nostra società.   
Rintracciare “Il” problema non è semplice, anzi forse impossibile, perché le questioni di genere (così come quelle di generazione) implicano questioni di potere, e le questioni di potere esistono da sempre, all’interno della storia degli esseri umani: dalla preistoria all’epoca dei romani, dal medioevo all’era moderna, dall’era moderna ad oggi, da oggi a domani (probabilmente, anche se c’è da augurarsi di no).
Attorno all’idea del genere, infatti, si sono costituiti nella storia gli usi e i costumi delle società: dalla dimensione fisica e biologica si è passati alla costruzione di identità sociali conformi (convenzionalmente ritenute tali) al proprio sesso d’appartenenza. Così una donna (XX) deve comportarsi da donna e un uomo (XY) deve comportarsi da uomo. La dicotomia uomo/donna si evoluta in una dicotomia maschilità/femminilità, la prima ha una natura oggettiva riconducibile a fattori biologici di riproduzione cellulare, la seconda è un costrutto sociale, sul quale si sono costruiti i rapporti di potere prima tra uomo e donna, poi tra uomini e tutto il resto.
Il “sex-gender system” ipotizzato da Gayle Rubin (1975) esprime bene questa relazione tra categoria biologica (sesso) e categoria sociale (genere), all’interno di un sistema consolidato di potere (e aggiungo, eterosessuale). All’interno di questo sistema di potere basato su sesso/genere, si sono plasmate le identità di milioni e milioni di persone, di intere generazioni. Inoltre, si sono costituiti gli immaginari collettivi relativi a ciò che è maschio e ciò che è femmina, in una iper-semplificazione del reale, così che tutto ciò che non rientra in questa distinzione è ignorato (quando va bene) e dove il primo elemento (maschile) detiene il potere e tutte le virtù, mentre il secondo (femminile) è condannato all’inferiorità e ad essere associato all’idea di debolezza e remissività. Non meno rilevante inoltre, è il ruolo rivestito dal concetto di “generazione”. Ossia delle differenze relative alle coorti di età più giovani e quelle più anziane. Assieme alla questione del genere, la dimensione “anagrafica” riveste un ruolo importante nel definire le relazioni di potere. Per esempio, la cultura del rispetto dei “vecchi”, l’idea che il “vecchio” sia “saggio”, e dunque meritevole di “ossequio” da parte dei più giovani, è un meccanismo socialmente costruito per mantenere gli equilibri di potere nelle varie società. All’interno di questo sistema “anagrafico” di gestione e riproduzione del potere e degli stereotipi, il genere si presenta come un qualcosa che può peggiorare la situazione di alcuni e migliorare quella di altri: per esempio una donna giovane, ha sicuramente più problemi di un maschio giovane, mentre una donna anziana, ha una sorta di “potere” che può esercitare anche su un “maschio giovane”. La complessità dell’intreccio “genere-generazioni-potere” è reso oggi più chiaro dalle azioni comunicative dei mass-media (che per definizione vogliono coinvolgere la massa e dunque utilizzano un vocabolario e un set di immagini/idee di senso comune, capaci di trasmettere efficacemente e spesso in modo tacito, valori, idee, usi e costumi, norme).  
In che modo i media rivestono allora un ruolo importante nelle questioni di genere? Ebbene, se si considera il concetto di “immaginario” questo ruolo diventa evidente. Il rapporto media-questioni di genere, si esplica in un circolo vizioso: dietro i media ci sono esseri umani, questi esseri umani utilizzano la propria conoscenza e la propria visione del mondo, per interpretare ciò che osservano attorno a sé; nel fare ciò sfruttano categorie pre-esistenti nella loro mente per catalogare ciò che osservano (il ricorso a stereotipi e pregiudizi, positivi e/o negativi). I media hanno lo scopo di veicolare informazioni e di coinvolgere quante più persone possibile: ciò che i media trasmettono è tuttavia una rappresentazione della realtà, ossia un insieme più o meno articolato di immaginari. Questi immaginari sono nelle menti delle persone che guardano, già esistenti, e media possono rafforzare o indebolire tali immaginari, ma possono (almeno potenzialmente) anche costruirne di nuovi. Dal mio personale punto di vista, ciò che i media non fanno, malgrado potenzialmente ne siano in grado, è costruire immaginari nuovi, o visioni del mondo nuove: ciò che mi sembra di capire è che ciò che viene proposto dai media non è innovazione (novità e/o alternativa), bensì continua opera di restauro di vecchi stereotipi (positivi o negativi) e visioni del mondo che provengono da un passato molto lontano. La distanza tra realtà e rappresentazione della realtà sembra essere molto ampia, specialmente perché alla base di queste questioni si trovano, appunto, questioni di potere. La resistenza al cambiamento è, nella mia idea, il tentativo forsennato di mantenere gli equilibri di potere che esistono tra gli uomini e tutto il resto: uomini vs donne o meglio maschi vs non maschi, vecchi vs giovani, e così via. Va da se, che anche questa è una semplificazione della realtà. La questione è da applicare in modo più ampio alla “diversità” in tutte le sue sfaccettature, ma la complessità e la vastità del tema sono un motivo non irrilevante, del fatto che in pochi se ne occupano: bianchi vs non bianchi, ricchi vs non ricchi, uomini bianchi vs uomini non bianchi, uomini vecchi vs uomini giovani, uomini giovani vs donne giovani, donne anziane vs donne giovani, uomini bianchi vecchi vs uomini neri giovani, e si potrebbe continuare per ore, credo, ad elencare in che modo le relazioni di potere si configurano in opposizioni, e dunque discriminazioni e poi ingiustizie.
In questo articolo però, mi voglio concentrare solo sul ruolo dei media nella ri-proposizione di stereotipi di genere e di generazione; e sull’effetto (almeno secondo me) che ciò ha nella costruzione e/o restaurazione degli immaginari collettivi di genere e generazione. Ho voluto scrivere queste poche pagine dopo aver guardato per qualche giorno la televisione generalista italiana: erano mesi che non accendevo la tv e nel guardare i vari programmi televisivi ho avuto modo di capire 1) il perché non avessi voluto più vedere la tv (ma questa è solo una questione di gusto personale) e 2) che aver studiato sociologia mi costringe a non vedere, bensì ad osservare qualunque cosa con l’obiettivo di problematizzare l’ovvio, dato che di ovvio c’è solo il fatto che niente è ovvio (e anche questo potrebbe essere un bel paradosso).
Ogni fiction, ogni programma, ogni pubblicità mi appare come un concentrato di stereotipi e di messaggi subliminali (a me abbastanza evidenti) che hanno lo scopo di plasmare le identità di chi le guarda. Vi descriverò di seguito alcuni degli elementi (due) che hanno fatto scattare in me questa consapevolezza (o presunta tale):
  
1)      Don Matteo (Rai Uno)
2)      La pubblicità di Cif-sgrassatore (Mediaset)

2.      Don Matteo: Stato e Chiesa, Laicità e Fede – la rivincita della tradizione


Al di là della piacevolezza o meno del programma, del suo essere in grado di suscitare o meno emozioni (positive o negative) ciò che non riesco a fare a meno di fare, è osservare e sezionare ogni scena attraverso uno sguardo sociologico, dunque critico dei contenuti, del linguaggio e delle immagini. Guardare un’intera stagione di “Don Matteo” (per l’esattezza la sesta stagione) prima e durante il pranzo, dovrebbe solo essere un momento di relax e di assenza di pensiero, dove la tv è sottofondo di un momento sociale di comunicazione e scambio di idee, ossia il pranzo (appunto). Eppure, malgrado una apparente distanza rispetto al telefilm mi è parso di cogliere nelle puntate che ho “visto”, ricorrere sistematicamente stereotipi sia di genere che di generazione. Tagliati trasversalmente dalla questione “cattolica”. Ora, va da se che un programma dal titolo “don matteo” abbia a che vedere con la “chiesa cattolica”, tuttavia declinato in un set “laico” (la vita di una cittadina umbra, le relazioni con l’arma dei carabinieri, la vita quotidiana delle persone) questa dimensione rappresenta (appunto, rappresenta e non propone un’alternativa) la vita di tutti i giorni, di una piccola realtà italiana: stato e chiesa, l’arma dei carabinieri e la parrocchia. La forza della legge (che arriva sempre dopo) e quella della fede (che sa sempre prima cosa accade e sa sempre come risolvere i problemi). Sia chiaro che non intendo criticare i valori/principi che vengono promossi e sostenuti, benché parziali. Tuttavia, la rappresentazione che viene data ai telespettatori (che per dispiacere di alcuni io continuo a reputare passivi e non attivi) è quella tradizionale (anti-innovativa) di una società à la “Peppone e Don Camillo” (anni Cinquanta).  
Esattamente questo, anni Cinquanta e non 2011. Facendo un parallelo tra i due programmi le differenze sono evidenti: bianco e nero l’uno, a colori l’altro; scontro aperto tra politica e chiesa nel primo, convivenza seppur complessa nel secondo tra Stato e Chiesa. Ma altrettanto evidenti sono i contenuti simili: stessa logica di azione (il prete conosce il suo gregge è lui che dà la fiducia e che capisce) all’interno del set della vita quotidiana di piccole realtà paesane, dove l’orologio del campanile scandisce i ritmi di vita e di pensiero, della popolazione. Senza specificare scena per scena e puntata per puntata voglio solo riportare i seguenti elementi che hanno accesso nella mia testa una lampadina circa questa relazione-riproduzione di stereotipi e visioni del mondo “arcaiche”:

a)      Rapporto Stato/Chiesa
b)      Rapporto Uomo/Donna
c)      Rapporto Padri/Figli
d)      Rapporto Vecchi/Giovani
e)      Rapporto tra dimensione descrittiva e dimensione normativa

Nella relazione tra Stato e Chiesa, si ha un “triangolo” simpatico: Don Matteo-Maresciallo Cecchini e Capitano Giulio. La relazione che intercorre tra queste tre figure ripropone in modo molto efficace la realtà italiana, dove il prete è “pastore delle anime” e dunque empatico e lungimirante, capace di comprendere in anticipo, perché illuminato da una qualche luce soprannaturale, il maresciallo, una persona con un titolo di studio basso che vive una doppia vita tra divisa dell’arma dei carabinieri e fedele amico del parroco, a cui va a confessare tutto e da cui aspetta consigli aiuti per “trovare la strada giusta”. E infine il capitano, la persona che rappresenta l’istituzione laica, l’arma dei carabinieri, titolo di studio alto, che apparentemente è ostile a questa commistione tra parrocchia e carabinieri, ma che sotto sotto ingoia il rospo amaro, perché sa “in cuor suo” che il prete per quanto noioso e ficcanaso, ha una marcia in più che può aiutare e sopperire le incompetenze di quelli che lo circondano (un manipolo di carabinieri goffi, stereotipati ancorché simpatici e poco affascinanti).
La dimensione pubblica (crimine-investigazione) si intreccia con dimensioni più intime, quelle degli altri personaggi (la vita quotidiana): la perpetua che fa la perpetua in tutti i sensi (curiosa, buffa, dedita alla cura della casa e del prete, depressa per la sua zitellaggine, insoddisfatta per la vita che fa, ma consapevole che il suo sacrificio è per una causa più alta e per aiutare/servire una persona come Don Matteo); la famiglia del maresciallo, una famiglia del sud insediata a Gubbio (Umbria) dove viene riproposto lo stereotipo del pater familia buono e comprensivo, ma allo stesso tempo duro, severo intransigente e cocciuto. Le storie personali delle vittime, dei criminali e delle persone che orbitano attorno a loro.
L’uomo e la donna sono anche in questo programma dipinti nel rispetto completo della tradizione cattolica: donna casalinga e madre vs donna in carriera e arrampicatrice sociale: il massimo è dato dall’attrito tra la fidanzata del capitano, donna in carriera, bella e acida, oltre che egoista e “inadatta” al ruolo di fidanzata/moglie per la sua latitanza e la madre del capitano, la mamma-chioccia che odia la fidanzata egoista del figlio. Un gioco in cui l’uomo che sta con una donna casalinga e dedita alla famiglia è un uomo “felice” e “soddisfatto”, oltre che “realizzato”, mentre un uomo che si ostina a correre dietro ad una donna in carriera (benché istruito e benestante) è un uomo “triste” e “sfigato”, appunto “poco uomo”. Gli aspetti comici che ritagliano i momenti intimi del capitano (uomo vero in divisa) e la fidanzata hostess di volo, dipingono la fidanzata come la “tigre” e il capitano come “il cagnolino bastonato”, tanto che ulula per farle piacere. Deriso dagli altri uomini, il maresciallo in primis benché molto meno affascinante e piacente del capitano.
E poi Don Matteo, il pastore angelicus, colui che capisce e risolve i problemi. Uomo energico, affascinante e sportivo. Un prete inusuale con la sua bicicletta sfreccia per Gubbio, indaga al posto dei carabinieri, interroga e ispeziona di nascosto, scopre l’invisibile, perché guidato dalla “fede”. Recupera tutte le pecorelle smarrite, nessuna esclusa. Riesce a far abbracciare il padre che ha perso il figlio per mano di un rapinatore, con il rapinatore stesso, e farlo diventare un “nuovo figlio”. Riesce a far perdonare i tradimenti dei mariti, da parte delle mogli perché “malgrado quell’errore, l’amore per la moglie rimane e per i figli che ci sono”, mentre non c’è traccia di un uomo che perdona la moglie per i propri tradimenti, anzi, di solito quella finisce ammazzata e ovviamente a lei il perdono non arriva.
Per quanto riguarda poi la relazione tra generazioni, qua si dà il meglio che si può, nella riproposizione di stereotipi e pregiudizi negativi sui giovani: nelle puntate che ho visto, i giovani sono dipinti essenzialmente in questo modo: santi, perché ubbidienti e diligenti, diavoli perché ribelli, disubbidienti, svogliati, dediti all’uso di alcool, droga e sesso senza sentimento. Poi all’interno di questa dimensione di spregiudicatezza, Don Matteo trova sempre la luce di Dio, che redimi queste pecorelle smarrite, così le sue poche parole sono sufficienti a far intravedere la Verità di Dio a questi disgraziati che prima erano assassini e delinquenti, ma che per via dell’amore di Dio, vengono perdonati da tutti, e quindi possono cambiare vita e ricominciare da capo. Coloro che non sono stati illuminati, sono morti ammazzati, o hanno ammazzato e poi si sono tolti la vita dal rimorso.
Questo insieme di fattori ri-propone una società basata sulla supremazia della fede rispetto alla legge degli uomini, dove la Verità è di Dio e dove il prete può (la religione in senso più ampio) redimere le pecorelle smarrite, perdonando qualunque misfatto, perché Dio è misericordioso e chi vive nella sua luce, lo è altrettanto. Gli anziani sono coloro che hanno la saggezza dalla loro, l’esperienza e la capacità di comprendere cosa è bene e male, mentre i giovani sono sempre e comunque le pecorelle che si smarriscono, oppure, fin quando sono ligi alle regole della famiglia e della società in generale (Chiesa/Scuola/Stato), sono buoni cittadini. All’interno di questo dipinto della società italiana emergono i rapporti di potere tra generi e generazioni: dove il perdono da parte della donna è sempre dovuto, e infatti si realizza sempre, oppure del padre verso un figlio (anche figurato, come nel caso del padre che ha perso il figlio con il suo assassino giovane e redento) si realizza solo dopo l’illuminazione della fede.
La visione del mondo che viene proposta è perfettamente tradizionale, tanto che esiste una continuità tra Don Camillo e Don Matteo, tra gli anni Cinquanta e il nuovo Millennio. Sembra che niente sia cambiato, se non la cornice: non c’è più il carro, ma la macchina; le campane non hanno bisogno del campanaro, c’è il cronometro elettrico; la polizia ha i mezzi per indagare, ma è comunque il prete in bicicletta ad arrivare sempre prima e così via. Come già detto niente in contrario al fatto che vengano veicolati valori/principi quali la “solidarietà”; il “perdono”; la “comprensione”, “la redenzione” e il “rispetto”, se non fosse che, a mio parare, all’interno di questa cornice, decisamente anacronistica ed eccessivamente idilliaca, vengono ri-proposte relazioni di potere tradizionali e monolitiche, che generano ingiustizie e discriminazioni sempre più radicate, quanto meno visibili: ribadisco, idea di giovani sempre da redimere e correggere, irresponsabili e superficiali (sono tutti così?); vecchi saggi e sapienti (sono tutti così?); la fede prevale sempre sul resto (è valido per tutti?); ad un danno/ingiustizia, tutti porgono l’altra guancia (è sempre così? E quelli che non lo fanno, sono da condannare?). Come hanno osservato in molti, anche nel rappresentare la realtà a grandi linee, la tv (i media) tendono a minimizzare o a enfatizzare determinati aspetti (Capecchi, 2007) tuttavia, credo che in programmi particolari sarebbe necessario proporre, piuttosto visioni alternative, seppur ritenute minoritarie o fantasiose, perché un programma come Don Matteo, è visto da famiglie e da bambini, che vedono consolidare modelli di comportamento in senso normativo: questo si, questo no. Devi fare così per essere buono, diversamente sei cattivo. E via dicendo.

3.      La pubblicità del Cif: progresso vorrei ma non posso….

Guardando questa pubblicità ho avuto modo di percepire in modo nitido la condizione dei media italiani oggi: costretti tra tradizione e innovazione, schiacciati tra il tentativo di rompere e proporre “novità” e “alternative” e la comodità di sfruttare gli stereotipi.
La pubblicità è fatta sotto forma di cartoon. Una voce narrante (femminile) racconta della storia di un regno, che ha perso il suo re. Per diventare re, di questo regno senza nome, la sfida è pulire un pentolone magico in modo perfetto. Moltissimi cavalieri tentano di sgrassare questo pentolone, ma inesorabilmente falliscono tutti: questi maschi sono proprio pessimi con i prodotti domestici. Non riescono a sgrassare un pentolone. Ma alla fine arriva un cavaliere con un’armatura lucente che rivendica di tentare anche lui. Fino a qua emerge un timido tentativo di proporre un’idea di “uomo-casalingo”, che fino all’arrivo dell’ultimo cavaliere però, è goffo e incompetente (non sa cosa usare per sgrassare, usa prodotti sbagliati, fallisce). Utilizzando cif-sgrassatore il cavaliere mette a lucido il pentolone e tutta la cucina in poco tempo.
Sono rimasto piacevolmente colpito da una pubblicità di questo tipo, ma il coupé-de-theatre finale mi ha proprio allibito: la voce narrante (suppongo sia una mamma che racconta al proprio figlio/figlia) dice che il cavaliere era riuscito nel suo intento, sgrassando il pentolone come nessuno era riuscito prima, diventano “la nuova regina!”. Il cavaliere si smaschera ed è una donna, non un uomo (ricorda un po’ Fantaghirò). Ecco svelato l’enigma, solo una donna è veramente in grado di occuparsi della cucina nel modo giusto. Tanto che a fine pubblicità viene caldamente consigliato alle mamme e alle casalinghe di comprare il prodotto, perché così possono pulire prima e meglio (anche se rispetto ai maschi questo è già ovvio). Un progressista eccessivo avrebbe potuto vedere nel cavaliere-regina un’idea nuova di transgenderismo, ma ho il sospetto che non sia lontanamente ipotizzabile. Per togliere il dubbio, alla fine il cartoon diventa la realtà, la voce narrante è il cavaliere, il cavaliere è la mamma che ha pulito la cucina con il figlio che guarda.
Banale? Forse, ma questa pubblicità mira a interessare oltre che le donne i bambini (sia maschi che femmine) proponendo un’idea ben precisa del ruolo/compito della donna e delle capacità che essa ha in un certo ambito del vivere (la sfera domestica) rispetto ai maschi. Chi non osserva, ma si limita a vedere, ribatterà sostenendo che questo è un “cercare il pelo nell’uovo”, ma essendo la sociologia una disciplina critica che “problematizza l’ovvio”, dico esattamente si: il pelo nell’uovo è bello grosso, qua non è servito molto indagare. È veramente chiaro il messaggio.    

4.      Osservazioni conclusive

I media rappresentano degli strumenti importanti di diffusione di informazioni/notizie, ma hanno anche un ruolo importante nel veicolare idee, pensieri, modi di fare, usi e costumi. Il ruolo più importante è rappresentato dalla capacità di “riprodurre immaginari” (Capecchi, 2007) più o meno stereotipati e legati alla tradizione. Ciò che voglio evidenziare è il ruolo che i media hanno nella proposta di stereotipi sia di genere che di generazione e come i tentativi di progresso (ammesso che esistano) siano invece solo apparenti e spesso funzionali alla ri-proposizione di stereotipi e pregiudizi.