Parlare di "giovani" è in questo ultimo periodo un argomento che fa tendenza. I politici ne fanno uso per ottenere consenso, spiegando che questa situazione proprio non va più bene: disoccupazione giovanile quasi al 30% (quella che riguarda i giovani tra i 15 ed i 24 anni; al 22% se si considerano anche quelli tra i 25 ed i 29 anni*); in aumento il numero di NEET (circa 2 milioni di ragazzi che non studiano e non cercano lavoro); effetti devastanti dal punto di vista sociale e culturale, infatti l'età in cui i "giovani" escono di casa si fa sempre più alta, si sposano meno e più in là nel tempo, fanno pochi figli e talvolta non ne fanno affatto. Insomma, è proprio una catastrofe. Eppure di interventi realmente pensati per i giovani non se ne vedono: come hanno osservato Boeri e Galasso (2009) la struttura italiana del mercato del lavoro sembra pensata proprio per penalizzare i più giovani. Privilegi per i più anziani, minori opportunità per i più giovani: dal mondo universitario a quello scolastico, dal mondo imprenditoriale a quello della politica. Una realtà contro i giovani. Eppure, tutti parlano dei giovani e da anni dicono che occorrono interventi urgenti e importanti.
Un'analisi non solo giornalistica, o polemica (ogni tanto viene da essere polemici ed ironici) ma sociologica potrebbe aiutare a comprendere (o almeno tentare) le motivazioni di questa condizione e forse potrebbe essere utile anche per l'individuazione di possibili soluzioni/proposte di intervento. Dal punto di vista culturale in Italia è considerato giovane un quindicenne tanto quanto un trentenne, tant'è che in alcune indagini, per esempio la rilevazione dei NEET, in paesi come UK e Germania viene usata una fascia di età tra i 15 ed i 24 anni, mentre in Italia la fascia di età considerata è quella tra i 15 ed i 29 anni. Forse è poco immediato, ma nasconde una grande differenza nella concezione stessa di chi è un "giovane". Malgrado ciò, questo dato non stupisce, il significato di un concetto varia da contesto a contesto e questo perché la "realtà è una costruzione sociale", siamo noi che diamo il significato e il senso alle parole che usiamo e dunque la domanda che occorre forse porsi è: perché in Italia è giovane un 15enne (adolescenza) tanto quanto un 30enne (età adulta)? La sociologia della famiglia in questo ha fatto molto, analizzando la condizione dei giovani come un fenomeno complesso, dunque multidimensionale: conta la situazione economica, ma non solo, hanno grande rilevanza il background culturale e sociale, le strutture di potere e le regole tacite ed esplicite di una data società. L'analisi sociologica ha il vantaggio, o per lo meno è ciò che io credo, di riuscire a cogliere la rilevanza di una molteplicità di fattori, al fine di offrire un quadro quanto più esaustivo del fenomeno in esame. L'elemento che pare avere il maggior peso è quello relativo alle "relazioni intra-familiari"; quello che Boeri e Galasso hanno definito "familynet" (Boeri e Galasso, 2009:101) e al modo con cui si sono configurate durante il tempo.
Nel contesto italiano il ruolo della famiglia è forte, perché sopperisce alle carenze dello Stato nell'erogazione dei servizi di sostegno sia ai giovani che agli anziani (Saraceno, 2009). Però questo ruolo sembra essere venuto meno di recente, a causa delle dinamiche che hanno visto, negli ultimi vent'anni, i giovani ora adulti (40-enni) metter su famiglia tardi, trovare un lavoro più o meno stabile tardi e aver fatto un solo figlio. Con nuclei familiari così ridotti, anche il ruolo delle famiglie sembra essere destinato a venir meno, e nell'interpretazione di molti questo è il motivo per cui i giovani di oggi, probabilmente avranno un domani molto peggiore dei propri padri e dei propri nonni. Lo Stato sembra non fare nulla per intervenire e senza le famiglie come "paracadute" i giovani sono lasciati a se stessi. Non a caso la povertà si è diffusa sopratutto nelle fasce più giovani di popolazione, nelle famiglie monogenitoriali e sopratutto al sud (**).
La questione della geografia è un altro fattore importante: la condizione dei giovani non è la stessa al nord al centro e al sud. Come per molti altri fenomeni, anche il contesto in cui si vive conta. Il sud riporta i dati peggiori, questo sopratutto per la mancanza di un apparato politico ed economico efficiente, anche se il familynet può essere più influente che al nord, dove il modello di famiglia che si è andato affermando negli ultimi vent'anni è sempre più identico a quello nord-europeo: entrambi a lavoro, un solo figlio, il nuovo nucleo familiare più lontano rispetto a quello della famiglia di origine (al sud è l'esatto opposto).
In conclusione, la questione giovanile è complessa e difficilmente può trovare una soluzione semplice e unica, ossia valida in tutti i contesti regionali, magari con lo scopo di "imitare" gli altri paesi europei. In Italia la situazione non è solo meramente economica, ma interessa anche la dimensione politica e socio-culturale. La questione giovanile è cruciale perché è al centro dell'intreccio tra economia, politica e società. Trovo che sia facile dire: "aiutiamo i giovani", molto meno facile dire "come".
Si è data una qualche ricetta? No, in questo articolo non si voleva dare una risposta, ma mettere in evidenza la complessità dell'argomento, e sottolineare che troppo spesso il problema fa tendenza e nasconde per lo più interessi che trascendono la volontà di conoscere, capire, interpretare e voler risolvere una questione.
Fig.1. Confronto del tasso di disoccupazione (TD) 15-24 anni tra il 2009 e il 2011, per area geografia con le medie IT e UE,
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* cfr. Forze lavoro mensili, ISTAT (2011) e lavoce.info - sezione "lavoro" e "famiglia;
** cfr. Indagine sulla povertà ISTAT (2010)
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