domenica 17 marzo 2013

Due stili a confronto - Benedetto e Francesco


 Non nascondo che lo studio delle dinamiche interne alla Chiesa Cattolica mi affascina molto. Ho sempre avuto interesse per lo studio della storia del Papato, delle questioni etiche e politiche che hanno interessato la Chiesa di Roma dalla sua nascita ad oggi.

Per questioni anagrafiche il mio interesse è rivolto soprattutto alla Chiesa del secolo scorso e del nuovo millennio. Nasco nel 1986 e quindi nasco nel periodo di Giovanni Paolo II. All’età di 19 anni assisto alla prima cerimonia per la sepoltura di un Pontefice e la preparazione per il conclave. Il 19 aprile 2005 assisto all’elezione di un Pontefice, è Benedetto XVI, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Ratzinger.

Benedetto XVI subentra ad un Papa storico, un gigante della Chiesa contemporanea. Non è un compito facile quello di Ratzinger. Non ha il vigore della giovinezza che aveva aiutato Giovanni Paolo II nel 1978, è un uomo di fede e di studio, è un filosofo e un teologo. Ha lavorato per venti anni all’ombra di Giovanni Paolo II e non è abituato ai bagni di folla. Da credente o da non credente, a Benedetto XVI va riconosciuto il coraggio di affrontare una società che per la Chiesa è incomprensibile. Possiamo dividerci sull'essere o meno d'accordo circa l'atteggiamento verso le donne, verso l'omosessualità e verso i costumi. L'innovazione non sta certo nei contenuti: le posizioni sulla famiglia "tradizionale" o sull'omosessualità, non sono diverse da quelle di Giovanni Paolo II e come si è visto, nemmeno da quelle di Francesco I. Questo è un dato con cui fare pace: le posizioni sostanziali della Chiesa e dei Pontefici non mutano, ed è "naturale" che sia così, è funzionale alla continuazione di una dottrina cristallizzata in duemila anni di storia e in una dottrina che regola la vita delle persone e le progenie. Ma in questo post vorrei concentrarmi sugli stili di comunicazione, sugli intenti "pastorali" dal punto di vista dei due Pontefici.
In questi anni Papa Benedetto XVI ha presentato una nuova forma di comunicazione: mite, ma ferma. Non ha fatto propria la veemenza di Giovanni Paolo II, è rimasto fedele alla propria indole. Da professore, i suoi discorsi erano piccole lezioni di teologia. Uno stile di comunicazione molto particolare: delicato, fermo, tradizionale, rassicurante e mirato alla spiegazione. 
Ho analizzato attentamente la comunicazione di Benedetto XVI e i contenuti di questa. Ho trovato sempre grande profondità e onestà nelle sue parole. Ho visto nella politica di Benedetto XVI un tentativo onesto di riportare la barca della Chiesa su acque tranquille, di “far pulizia” al suo interno prima di tutto. E questa è la sensazione che mi ha offerto, ciò che da spettatore ho potuto percepire.
Gli scandali sulla pedofilia hanno di fatto incrinato il rapporto di fiducia tra Chiesa e Comunità dei Fedeli. Benedetto XVI aveva coscienza del pericolo che incombeva e ha capito che le energie per affrontare una rivoluzione interna alla Chiesa non erano sufficienti per un uomo della sua età. La fatica dell’età è infatti un fatto ineludibile. Di mese in mese le forze vengono meno, ad ottant’anni non si è più ciò che si era a settantanove anni. Ogni anno che passa diventa insostenibile, specialmente per chi deve ricoprire una carica di così grande importanza. 
Affrontare un magistero che parla a miliardi di persone in tutto il mondo: Pastore della Chiesa Universale. Vi immaginate la pressione e il senso di isolamento che deve provare una persona che ricopre un tale incarico? 
Paolo VI fu il primo a parlare della profonda solitudine del Pontefice. Ma è sempre mancato il coraggio di riconoscere la propria umanità: il rituale della vestizione può essere responsabile di questa incapacità di "rinunciare". Entri Cardinale, ti spogli delle tue vesti e diventi il Sommo Pontefice, vesti una toga bianca, pura come la neve, e cambi nome: rinunci alla tua dimensione individuale, alla tua personalità e divieni "altro". 
La retorica della "trasfigurazione" inizia a cedere con Giovanni XXIII. Non a caso è lui a indire un Concilio per aggiornare la Chiesa. Non poteva essere un Pio XII, nobile, principe della Chiesa e non solo. Benedetto XVI partecipa al Concilio Vaticano II, come giovane teologo. Cresce in questo clima di rivoluzione dogmatica e procedurale, diventa cardinale e lavora con Giovanni Paolo II per venti anni. Sta nell'ombra. Riflette, scrive e supporta il Papa nelle sue scelte. Ma Benedetto XVI è novità, novità nella continuità. La sua Chiesa è quella delle origini: preghiera, misericordia, tradizione e umiltà davanti a Dio. 

Vorrei poter analizzare uno per uno gli interventi di Benedetto XVI perché, malgrado io non condivida quasi niente delle posizioni della Chiesa, specialmente per quanto riguarda i diritti civili e per quanto riguarda il ruolo del sacerdozio, ammiro la personalità umile e mite di questo uomo diventato Papa. Rispetto il suo sforzo nel custodire ciò che per lui era il valore massimo: la tutela della fede come indicata nella teologica e nelle scritture. 
Lo ha fatto recuperando tradizioni e rituali artificiosi, inscritti nella dottrina, ma che non provenivano dagli insegnamenti di Cristo. Lo sforzo era, secondo me, intriso di buoni intenti, ma la metodologia è stata fallace. Si è confuso il dogma con la fede, la tradizione mondana con i principi ed i valori veri di una religiosità recuperata. 
La comunicazione di massa ha trasformato anche la Chiesa, e Giovanni Paolo II ne è stato interprete e fautore, a torto o a ragione. Infatti, istituzione millenaria non può restare monolitica perché i tempi corrono troppo veloci per poterselo permettere. Ma, paradossalmente, ogni apertura alla contemporaneità ha permesso il lento e inesorabile smantellamento dell’istituzione così come la storia ce la ha consegnata. Raztinger ha, forse, tentato di recuperare la tradizione dogmatica e rituale per poter ristabilire la supremazia di una istituzione in crisi: le vestigia, il latino, la centralità delle scritture rispetto alla comunicazione di massa, l’attenzione per le minuzie celebrative e per gli oggetti sacri. Le encicliche stesse sono una testimonianza di questa volontà di spiegare e di recuperare quanto di ciò che è stato. 
Benedetto XVI ha cercato di restituire alla Chiesa  l’immagine dell’Istituzione eccellente, della Chiesa onnipotente. Ha rivalorizzato una storia antica di duemila anni, ma lo sforzo era quello di un uomo divenuto Papa, da solo in questo tentativo, fuori dalla storia. La Chiesa di Cristo doveva tornare alla Sua funzione di testimone di Dio, e la figura del Papa diviene, nella testimonianza di Ratzinger, solo un mezzo per ottenere tale scopo. Non c'è infallibilità né onnipotenza nel Pontefice, egli è solo un "umile servitore nella vigna del signore". 
Benedetto XVI è per tutti il Papa della tradizione, il conservatore, il professore e il teologo. Non ha il fascino comunicativo di Giovanni Paolo II e non ha nemmeno l'idea mitologica della figura del Pontefice. Per Ratzinger, il Pontefice serve la Chiesa e Dio e per farlo deve averne le capacità: fisiche e spirituali.   

Il Papa si scopre uomo e si scopre vero testimone dell’innovazione conciliare. L’infallibilità del Papa è ormai un'idea decaduta, il suo approccio dialogante tipico del professore e dello studioso lo hanno indotto a non essere “monarca assoluto” ma a spiegare le sue scelte, anche a giustificarle. Niente di più mondano e di più terreste che giustificare e spiegare le proprie posizioni. L'atto di fede, infatti, si fa verso Dio non verso gli uomini e non verso le loro interpretazioni della vita. 
Il paradosso di questo Pontificato è, secondo me, tutto qua: c'è un tentativo di ripristinare una tradizione millenaria che poneva la Chiesa ad un'altitudine diversa, con un metodo secolarizzato e post-conciliare. Benedetto XVI ha tentato di spiegare alla gente la fede dal punto di vista della Chiesa di Roma, i suoi Angelus erano questo: narrazioni situate e studiate, episodi delle sacre scritture declinati ai giorni nostri. La capacità di interpretare testi antichi e di spiegarli a tutti: un professore che parla agli alunni, come un filosofo greco nell'agorà. Non solo, si è anche prestato alla nuova comunicazione digitale, portando il Papato in rete, su twitter. Complesso per un Pontefice limitare il proprio intervento a 120 caratteri. Sembra che Francesco I abbia accettato di buon grado di proseguire su questa strada: nuove forme di evangelizzazione. 


L’ultimo Angelus di PapaBenedetto XVI è secondo me la manifestazione più dolce e profonda dell’umiltà di questo uomo divenuto Papa e della sua profonda razionalità, coscienza e buonafede. Nell’ultimo Angelus Papa Benedetto XVI è visibilmente stanco, con voce affannata e incerta, non è un "monarca assoluto", è un anziano signore che chiede perdono per le proprie fragilità e un uomo di grande saggezza che sa riconoscere quando è il momento di cedere il passo. Le dimissioni dal ministero petrino hanno abbattuto definitivamente l’idea di infallibilità e onnipotenza della figura del Pontefice e di conseguenza del Papato. Un ruolo non più divino, ma totalmente umano e mondano, politico e sociale.  
“Grazie per il vostro affetto” dice il Papa. Una dichiarazione di gratitudine, una manifestazione di umilità, come ricorderà poco dopo Francesco I. Parla del ruolo della preghiera e del bisogno di rinnovare una fede, forse messa in discussione dalle brutture della vita e degli intrichi di palazzo. 
Il primato della preghiera è posto come elemento fondativo della fede. Non è isolamento dal mondo, la preghiera per Benedetto XVI è un riavvicinarsi a Dio, salendo il “monte” verso la divinità non per restarvi, ma per tornare indietro e offrire se stesso al mondo, ma in un modo consono alle forze e all'età. Benedetto XVI ammette di avvertire questo messaggio particolarmente forte per se stesso, per questo momento preciso della sua vita: “non abbandono la Chiesa” afferma. Si dedicherà alla preghiera, alla fede profonda e personale, per servire la Chiesa. Pregherà per la Chiesa affinché lo sporco venga lavato via. Ammette la necessità di rivoluzionare tutto, anche la figura stessa del Sommo Pontefice: grazie a questo atto di coraggio, la Chiesa non potrà più essere quella che è stata e paradossalmente dovrà tornare ad essere ciò che avrebbe dovuto. 
La preghiera e la misericordia entrano prepotentemente nella vita collettiva e istituzionale della Chiesa. Nessun Pontefice dopo di lui potrà ignorare quanto fatto, il gesto di rottura supremo: la rinuncia al ministero petrino.  
Nessun Pontefice dopo di lui potrà dire: è per sempre. Nessun Pontefice dopo di lui potrà dire che la sua esperienza personale, come Capo della Chiesa, potrà essere scambiata con la volontà di Dio e associata all’idea di infallibilità. 
Il Pontefice è umano, troppo umano. Solo in questo modo può partecipare alla sofferenza della Chiesa e della collettività, solo divenendo uomo tra gli uomini, anche il Sommo Pontefice può comprendere la sofferenza e il bisogno in cui si trovano miliardi di persone. Il significato stesso del gesto di Benedetto XVI è di portata epocale. Questo uomo divenuto Papa, mite e umile, ha impresso nella storia della Chiesa futura la sua impronta indelebile. Benedetto XVI ha reso alla Chiesa un servizio senza precedenti: sacrifica se stesso, le sue prerogative, i suoi privilegi in virtù del bisogno di rivoluzionare l’intero sistema, di rendere la Chiesa più umile e più vera. La fede e la vocazione tornano al centro del dibattito interno alla Chiesa e il mondo ha assistito ad un gesto di coraggio e di profonda saggezza. La comunicazione di Benedetto XVI era funzionale a questi scopi, che gli obiettivi siano stati o meno raggiunti, è un discorso a parte che deve tenere conto della contemporaneità e della sempre più radicata "secolarizzazione": forse la Chiesa come la conosciamo noi per poter realmente riconquistare un dominio spirituale, deve cadere e risorgere dalle proprie ceneri, come una Fenice. Potrebbe essere necessaria una Chiesa "altra": il tempo non è clemente, ed esige che vengano date risposte ai temi sociali emergenti: donne, povertà, disuguaglianza sociale, politica e umana, omosessualità e famiglie alternative. 
L’elezione di Francesco I è in  parte il nuovo. Un Papa non europeo, il primo dall’inizio della Storia della Chiesa, così come conosciuta dopo Pietro (che non era europeo). Un gesuita, una figura quasi misteriosa. Un uomo che vive umilmente e che ha scelto come nome quello di Francesco. San Francesco d’Assisi, l’uomo ricco che si straccia le vesti perché la vera fede non è nella ricchezza. San Francesco è l’uomo della misericordia, della lotta alle ingiustizie e alla corruzione della Chiesa. Innocenzo III, Papa contemporaneo di Francesco d’Assisi, conferma l’ordine dei Francescani, pare dopo un sogno premonitore, una visione in cui la Chiesa in rovina, decadente, distrutta dai peccati dei suoi ministri, viene salvata da un Francesco. A distanza di 1000 anni, un Francesco diviene Papa e la sua elezione è rottura totale con quanto è stato fino a otto anni prima.
Francesco I ignora il protocollo, ignora le minuzie dei riti romani, gli oggetti sacri e lo sfarzo del Papato. Cammina per strada, come un frate, parla con la gente, come un parroco, scherza con i giornalisti e lo fa partendo sempre da una sua personale visione delle cose. Il primo Angelus di Francesco I è una narrazione personale, è distante dallo stile di Benedetto XVI. Non sono gli episodi delle scritture al centro della narrazione, ma l'esperienza della propria missione. Si pone come uno fra molti: è umile nello stile, sobrio negli atteggiamenti, è colloquiale e personale. Ogni discorso è un riferimento alla propria vita e alla propria esperienza pastorale. L’effetto Benedetto XVI è visibile. Una chiesa umile e originale, un cambio di passo. Il Pontefice non è più un monarca assoluto e non è infallibile, il Pontefice è uno di noi, è parte della comunità e in quanto tale si rapporta ad essa con amicizia e con informalità. Dice il Papa "è importante incontrarsi di Domenica, salutarsi e parlarsi, qui nella piazza". Questa affermazione racchiude, secondo me, tutto quanto c'è da osservare su questo nuovo Papa e sul suo stile. Entrambi i Pontificati si sono aperti con gesti di umiltà e con una richiesta: pregare per il vescovo di Roma affinché faccia bene il proprio dovere. 
Benedetto XVI e Francesco I sono diversi, hanno esperienze diverse. Condividono, però, un comune senso della fede e della misericordia, mi verrebbe da dire, monacale, dedicato al sacrificio personale per essere testimoni del bisogno di cambiamento di tutta la Chiesa. Hanno anche un sogno: avere una Chiesa riformata e purificata. Per Benedetto XVI il sogno era di cacciare il relativismo e i venti di dottrina, per Francesco I è avere una Chiesa povera. Ricca di misericordia e carità, ma povera di intrighi, di collusioni col potere mondano, e una maggiore apertura alla gente e alla comunità. 
Sono entrambi conservatori e difensori di una certa dottrina, ma credono nel primato della preghiera e del dialogo, si confrontano con la gente, seppur ad altitudini diverse. Se il processo innescato da Benedetto XVI e che Francesco I sembra intenzionato a non interrompere, porterà vantaggi alla Chiesa, intesa come comunità di fedeli piuttosto che come gerarchia e curia, lo si vedrà nel tempo, la storia sarà giudice, condannerà o assolverà.  
Nel frattempo non resta che augurarci che i conservatorismi, le posizioni arcaiche e antistoriche restino fuori dal percorso di rivoluzione appena avviato, e che i principi del Concilio Vaticano II non solo vengano applicati, ma anche rivisti alla luce delle potenti trasformazioni sociali e culturali che hanno interessato, interessano e interesseranno il mondo in questo nuovo millennio. 
E se questo profondo rinnovamento significherà ripensare l'intera Chiesa e ripensare anche i dogmi e la sostanza dell'istituzione, allora ben venga un Papa Francesco, portatore di un nome di umiltà profonda. 

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Federico Quadrelli, sociologo, 17.03.2013. 

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